Può la Thailandia essere considerata un Melting Pot? Una delle cose che ho sempre apprezzato di questo paese è la sua capacità di accettare ciò che è diverso, e che in altri paesi può essere causa di discriminazione. Forse questa percezione è dovuta alla mia esperienza personale, a cui si deve aggiungere un po’ di idealizzazione causata inevitabilmente dall’aver vissuto la Thailandia a piccole dosi da bambina.
Cosa significa Melting Pot?
Ricordo di aver scoperto per la prima volta questa espressione in una lezione d’inglese al liceo. Secondo Wikipedia, il “Melting pot è l’espressione che si usa per indicare quel tipo di società che vive e permette la commistione di individui di origini, religioni e culture diverse con il risultato di costruire un’identità condivisa molto diffusa nel USA”.
Il fatto che questo termine sia stato coniato per parlare degli Stati Uniti mi ha sempre fatto storcere il naso, soprattutto perché mi è sempre sembrata una cosa molto “occidentale” di volersi autocelebrare, dando per scontato che questo modello di società inclusiva non esista da altre parti. E non mi riferisco solo alla Thailandia, ma anche alla Malesia – questa idea è molto personale, perché devo ammettere di conoscere molto poco la Malesia, ma ho parenti che ci vivono e ho avuto modo di andarci tre volte, la prima proprio durante il liceo, se non ricordo male, in gita scolastica con mia cugina che era all’università, durante le ferie estive).
Durante quell’esperienza, ricordo che la nostra guida ci aveva portato in un quartiere dove in meno di 1 km c’erano: un tempio indiano accanto ad un tempio cinese, di fronte ai quali c’era un mercato multietnico. All’angolo di quella via, si poteva vedere una moschea, e, un paio di strade più in là, si ergeva una chiesa cristiana. Facendo un giro in quel mercato, si potevano vedere persone di tutte le etnie, cibi di tutti i paesi, convivere pacificamente nello stesso quartiere.
Dal punto di vista religioso, sebbene il “Paese del Sorriso” sia a maggioranza buddista, non mancano cristiani né musulmani, mentre dal punto di vista delle origini, sono moltissime le famiglie thailandesi che possono vantare origini cinesi.
Basta questa constatazione per definire la Thailandia un Melting Pot? Ovviamente no, ma durante diversi avvenimenti problematici è capitato diverse volte di sentire la gente definirsi prima di tutto thailandese, portando quindi a unirsi anche per superare insieme i problemi.
Non è affatto insolito qui, soprattutto nel sud della Thailandia, vedere monaci buddisti e imam camminare fianco a fianco, o aiutarsi, e anche negli uffici si vedono lavorare tranquillamente fianco a fianco buddisti e musulmani senza alcun problema, rispettando le credenze e usanze delle diverse religioni.
Ho visto amici musulmani assistere a cerimonie buddiste in ufficio, senza parteciparvi, e ho visto amici buddisti rispettare il momento di preghiera dei colleghi musulmani, lasciando loro una stanza apposita per poter pregare senza venire disturbati.
Ho visto amiche filippine portare a messa i loro studenti thailandesi musulmani, curiosi di imparare qualcosa in più sulla religione cristiana, senza che il nostro sacerdote o il resto della comunità avesse nulla da ridire in proposito.
Anche quando si doveva scegliere dove andare a mangiare, il fatto di avere dei colleghi musulmani non è mai stato percepito come un’imposizione nel non poter ordinare maiale – che poi, nel 90% dei casi, veniva ordinato comunque, e ci si sedeva con chi mangiava maiale da un lato del tavolo, e chi mangiava pollo o carne di bovino dal lato opposto.
Se facessimo un parallelismo, sarebbe come se doveste organizzare una cena con amici vegetariani e amici che amano le bistecche; un compromesso lo si può trovare senza dover imporre le proprie scelte o sentirsi “costretti” a rinunciare qualcosa.
Non solo religione…
Quando penso al concetto di integrazione nella società thailandese, mi viene da pensare non solo alle credenze religiose, ma anche per quanto riguarda il “gender”, ovvero il genere in cui ci si riconosce.
Come abbiamo già visto nei post riguardanti le comunità LGBT, rispettivamente Miss Tiffany e i Tomboy, qui le persone sono molto più libere di vivere la loro identità senza rischiare di venire discriminate né socialmente né lavorativamente parlando.
Ho lavorato con colleghe lesbiche, colleghi tomboy che, quando era il momento di ordinare le divise dello studio preferivano i modelli da uomo e colleghi apertamente gay, senza veder mai tirare in ballo il loro genere neppure durante le discussioni più accese nelle riunioni. Anzi, è capitato diverse volte di sentire conversazioni interessanti su un mondo che altrimenti non si avrebbe modo di conoscere.
Una società non perfetta
Sebbene la società thailandese sia molto aperta all’integrazione, ciò non significa che sia tutto rose e fiori. Ci sono famiglie con mentalità meno aperta che hanno difficoltà ad accettare la comunità LGBT o persone appartenenti a religioni diverse, e ci sono persone mezzosangue come me, ovvero metà thailandesi e metà di un’altra nazione, che si sono sentite discriminate nella società thailandese, così come ci sono molti Farang che sentono la differenza tra “trattamento per Farang e per thai”.
Credo che molto però dipenda anche dalla propria mentalità; personalmente mi è capitato sia di sentirmi integrata, sia di sentirmi Farang, sebbene fossi sempre in contatto con le stesse persone. Ma spesso questo cambio di percezione è stato dovuto anche al mio volermi mettere di traverso (in fondo, la mia istruzione è molto influenzata dalla cultura italiana ed occidentale, e a volte questo è andato in netto contrasto con alcuni atteggiamenti tipici della Thailandia e dell’Asia in generale).
Però, in linea di massima, questa accettazione culturale è uno degli aspetti che più amo della Thailandia, anche perché mi ha permesso di scoprire usi e costumi di altre culture, ampliando le mie conoscenze e rispondendo a molte curiosità. Ed è per questo che penso che l’idea di Melting Pot e multiculturalità non sia affatto da considerare con un’accezione negativa; accettare altre culture non significa perdere qualcosa della propria identità, ma può essere una ottima occasione per imparare qualcosa di nuovo e, di conseguenza, conoscere meglio anche se stessi.
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