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Buddismo e felicità

Buddismo e felicità
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Ogni qualvolta mi capita di leggere di qualche pubblicazione in inglese in cui si parla di Buddismo e felicità, ammetto di trovarmi un po’ a disagio. Non credo di aver capito tutto del Buddismo, anzi, ci sono ancora molti concetti a me sconosciuti, però il concetto di felicità che spesso viene associato ad esso mi sembra nasca per una necessità di adeguare la filosofia buddista ad una visione più occidentale che ad una orientale.

Per questo motivo, quando ho letto di “felicità” nel libro “Le quattro verità dell’esistenza” del monaco buddista vietnamita Thich Nhat Hanh, ho rabbrividito un poco, temendo che avesse “adattato” il messaggio buddista per renderlo più appetibile alla cultura occidentale. Per fortuna, dopo poche pagine ho potuto tirare un sospiro di sollievo: il concetto espresso dal monaco è molto più vicino a ciò che viene attribuito agli insegnamenti del Buddha rispetto ad altri testi.

Premessa

Piccola premessa: non ho niente contro gli occidentali che hanno una loro visione del Buddismo, ma non posso fare a meno di pensare che a volte l’animo umano tende ad adattare la visione del mondo secondo le proprie credenze, abitudini e “comodità”.

Così come non mi fanno impazzire i cristiani thailandesi che semplificano gli insegnamenti di Gesù, al punto da dire “tanto anche se faccio peccato, posso comunque andare in Paradiso se “utilizzo” la confessione per pulirmi” (okay, non tutti la pensano così, ma mi è capitato di sentire una frase del genere e ho rabbrividito, pensando a quante cose sbagliate c’erano in quella frase), così anche gli italiani che semplificano il pensiero di Buddha mi lasciano un po’ perplessa.

Insomma, va bene cercare di capire una mentalità diversa dalla propria, ma non bisogna mai dimenticare che proprio perché ci si avvicina a qualcosa di completamente diverso da ciò che si conosce, bisogna anche accettare di vedere le cose da un’altra prospettiva.

Un esempio: la visione di Herman Hesse nel suo Siddharta mi ha fatto storcere il naso per tutta la durata del racconto. Era decisamente una reinterpretazione occidentale sul buddismo, più che un racconto di cos’è il buddismo in sé, e quando ho terminato il libro (sono arrivata alla fine solo perché stavo ascoltando un audiolibro, se l’avessi letto io credo mi sarei fermata molto prima della fine) mi sono domandata più volte perché fosse piaciuto così tanto. E ancora non l’ho capito.

Buddismo e felicità
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Accenno al primo Sutra buddista

Poi ho ripreso in mano uno dei primi Sutra buddisti che recita:

Ci sono due persone al mondo che non possono essere ripagate: nostra madre e nostro padre. Anche se uno tenesse sua madre su una spalla, e suo padre sull’altra spalla e vivesse in questo modo per 100 anni, e si occupasse di loro quotidianamente dando loro da mangiare, e lavandoli, pulendoli da urina e dalle feci, non avrebbe ancora ripagato il suo debito nei loro confronti.

Beh, sicuramente questo messaggio è molto forte da recepire, soprattutto da una società occidentale abituata a puntare all’indipendenza dell’individuo anche, e soprattutto, dai genitori. Però ci fa capire perché nei paesi orientali buddisti ci sia una mentalità legata al prendersi cura dei propri genitori, una volta diventati adulti. E del perché qui in Thailandia non esista nei giovani il concetto di “andarsene di casa una volta maggiorenni”.

La felicità secondo il buddismo

Ma non divaghiamo: oggi parleremo di felicità e buddismo, ma per farlo dobbiamo mettere da parte la nostra concezione di “felicità” e cercare di capire il suo significato per il buddismo.

Perché se non mettiamo da parte ciò che conosciamo riguardante la felicità, rischiamo di fare come gli estroversi che non capiscono come possano gli introversi divertirsi a starsene da soli a casa, oppure come alcune persone onnivore che non capiscono cosa ci sia di buono nei cibi vegani.

Cerchiamo di mettere da parte i pregiudizi, ciò che a noi sembra giusto e ciò a cui siamo abituati a pensare, e chissà, magari potremmo scoprire qualcosa di nuovo – il che non significa per forza cambiare idea, ma sicuramente avere qualche conoscenza in più non può che renderci più saggi e permetterci di sviluppare una visione più ampia della realtà.

Il Buddha ha detto che esiste la sofferenza ma non ha detto che non esiste nient’altro. […] È un errore pensare che possiamo essere felici solo se eliminiamo la sofferenza.

Le quattro verità dell’esistenza, Thich Nhat Hanh
Buddismo e felicità
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Sofferenza e felicità nel buddismo

Se mi chiedete quale sia il mio scopo nella vita, non vi risponderò che voglio essere felice. Preferisco di gran lunga cercare di essere serena.

Questo perché la felicità comporta sempre la sofferenza: non conoscendo la sofferenza, non si può essere felici, perché la felicità la riconosciamo principalmente perché facciamo un confronto con un momento di sofferenza.

Così come non si può conoscere la luce senza l’ombra, o il caldo senza avere idea di cosa sia il freddo, così anche la felicità è legata alla sofferenza.

Il concetto di caldo e freddo sono relativi, se mi seguite da un po’ vi ricorderete di quando vi ho raccontato della diversa concezione di “freddo” che hanno i thailandesi, per cui se ci sono 21 gradi fa freddo, essendo loro abituati a temperature superiori ai 30 gradi, mentre per un italiano 21 gradi è sinonimo di caldo, pantaloncini corti e maglietta. (ne ho parlato in questa puntata del podcast)

Questo accade perché il metro di paragone non è univoco: rispetto a 30 gradi, 21 gradi sono una temperatura nettamente più fredda, mentre se si è abituati a temperature di 12 gradi, allora 21 gradi rappresentano una differenza di calore notevole.

Felicità relativa

Allo stesso modo, anche felicità e sofferenza non sono uguali per tutti: in particolare, la felicità può essere portata da molteplici fattori. Alcuni possono definirsi felici perché sono riusciti ad organizzare una pizza con gli amici, altri invece ricercano la felicità in viaggi esotici lontano da casa, altri ancora sono invece felici di passare una serata relax, con una maschera sul viso e una bella serie tv da guardare rilassati sul divano, con il cellulare spento perché nessuno possa disturbarli.

Insomma, non c’è una ricetta per la felicità che sia uguale per tutti; ad alcuni piace la montagna, mentre ad altri piace il mare, ma la felicità non è né al mare, né in montagna.

La felicità è in ciò che noi percepiamo in base alle nostre preferenze e al rapporto con la nostra concezione di sofferenza. L’unica cosa che accomuna tutti coloro che sono alla continua ricerca della felicità è che essa non arriverà mai da sola: il buddismo ci ricorda che tutte le cose sono passeggere, e questa regola vale anche per la felicità.

Una differente concezione di “serenità”

Se aspettiamo di aver eliminato il 100 per cento della sofferenza per essere felici, quella felicità non arriverà mai.

Le quattro verità dell’esistenza, Thich Nhat Hanh

Non ci si può aspettare di essere SEMPRE felici.
Forse per questo motivo che, invece del termine “felicità” preferisco il termine “serenità”. Il buddismo non porta felicità, ma porta serenità e calma. O almeno, questo è come lo preferisco leggere io.

Se la felicità è un’emozione forte, che ti riempie di gioia ed è in netto contrasto con la sensazione di sofferenza e dolore, la serenità è più una via di mezzo.

Cerco di spiegarmi meglio, prendendo come immagine di riferimento quella di un elettrocardiogramma; i picchi superiori rappresentano i momenti felici, mentre i picchi inferiori i momenti di sofferenza. La linea orizzontale che unisce i due picchi è ciò che io definisco serenità.

Buddismo e felicità
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Qualcuno potrebbe fare una battuta sul fatto che “se non ci fossero alti e bassi, la vita non ci sarebbe” riferendosi ad un elettrocardiogramma piatto. La mia personale lettura però non intende dire che bisogna essere sempre solo sereni ed evitare qualsiasi altra emozione; semplicemente ho avuto questa intuizione, leggendo e approfondendo il buddismo, che la serenità e la presenza, cioè la consapevolezza dell’attimo presente, vadano di pari passo.

Nella mia concezione buddista del termine, la serenità è un sentimento meno forte della felicità, ma più duraturo. Nella mia idea, la felicità è un fuoco forte che divampa, incendia tutto ciò che incontra ma si spegne in poco tempo, mentre la serenità è un fuoco più flebile, “poco interessante”, ma che dura molto più a lungo.

Quando non sono né felice né triste, ciò che voglio essere è semplicemente serena, ovvero lasciare i problemi da parte, per quanto possibile, e cercare di vivere consapevolmente il presente, senza sentire i rimorsi del passato o subire l’ansia per ciò che accadrà in futuro.

(nota: non è facile attuare questo tipo di stile di vita, per nulla, ma ciò non significa che non valga la pena di provare a vivere così)

Alla ricerca della felicità… attraverso lo studio della sofferenza

Buddha non dice che sia sbagliato cercare la felicità: semplicemente ci dice che, per essere felici, bisogna anche abbracciare la sofferenza.

L’arte di creare felicità e l’arte di gestire la sofferenza sono la stessa cosa. […] Se non capiamo la natura della sofferenza, saremo ciechi al sentiero che porta alla felicità.

Le quattro verità dell’esistenza, Thich Nhat Hanh

Si può essere felici anche in momenti tristi?
Si può avere dei momenti di tristezza anche quando siamo felici?

L’animo umano è complicato, ed è in grado di provare più emozioni contrastanti contemporaneamente. Immagino che a tutti sia capitato almeno una volta nella vita di non saper descrivere i propri sentimenti se non con un “misto di…” seguito da due emozioni contrastanti.

“Da una parte sono felice perché…”
“Eppure c’è una parte di me che si sente anche triste per via di questa situazione…” o viceversa.

Quando siete felici, domandatevi cos’è che vi rende felici. E il buddismo ci invita a interrogarci sulla nostra felicità, andando a capire da dove nasce, quali sono gli elementi che hanno portato a questa emozione e sensazione.

Buddismo e felicità
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Da cosa è composta la felicità secondo il buddismo?

Nel libro del monaco Thich Nhat Hanh che vi ho già citato diverse volte oggi, c’è un capitolo che si intitola “Niente fango, niente loto”. La bellezza del fiore di loto nasce anche perché è in contrapposizione alla sporcizia del fango. Eppure, senza fango il fiore di loto non potrebbe nascere.

I fiori di loto sono composti da elementi non-loto, compreso il fango. La felicità è composta da elementi non-felicità, compresa la sofferenza.

Le quattro verità dell’esistenza, Thich Nhat Hanh

Se si osserva attentamente il fiore di loto, non con i nostri occhi “fisici”, ma tramite la meditazione, si potranno vedere in esso diversi elementi non-loto, come l’acqua, il fango, l’aria… tutti elementi che hanno causato la nascita del fiore stesso ma che non rappresentano il fiore in quanto tale.

Allo stesso modo, se guardiamo alla felicità, analizzandola con calma e cercando di avere una visione oggettiva di essa, potremmo riconoscere i vari eventi che hanno portato ad essa, e gli elementi che hanno reso possibile “elevare” quel momento di serenità in felicità. E probabilmente, tra i motivi che hanno portato a quella felicità, potremmo trovare anche degli elementi di sofferenza.

E se riconosciamo quegli elementi di sofferenza, saremo in grado di vedere ancora più bellezza nella felicità raggiunta.

La felicità per il buddismo non è quindi una cosa completamente positiva: un po’ come lo Yin e lo Yang, nella felicità c’è anche una piccola parte di sofferenza, così come nella sofferenza può esserci un po’ di felicità.

La sofferenza racchiude la felicità,
la felicità racchiude la sofferenza.

Le quattro verità dell’esistenza, Thich Nhat Hanh
Buddismo e felicità
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