Ci sono due concetti opposti legati tra loro di cui non si può fare a meno di parlare quando si parla di buddismo: sono sofferenza e felicità. Come il dualismo luce-ombra o caldo-freddo, anche sofferenza-felicità possono essere considerati l’uno l’opposto dell’altro, ma allo stesso tempo, uno non potrebbe esistere senza l’altro.
La sofferenza racchiude la felicità, la felicità racchiude la sofferenza.
Le quattro verità dell’esistenza, Thich Nhat Hanh
Quando qualcuno ci chiede se una cosa è calda, il nostro cervello fa immediatamente un confronto con ciò che è considerato “la norma” per determinare la risposta.
Abbiamo già visto questo concetto quando abbiamo parlato della concezione del freddo thailandese: qui nel sud della Thailandia i 30°C giornalieri sono la norma, per cui 21°C possono essere considerati già come “freddo”.
Ma se guardiamo ai 21°C in Italia, ed in particolare al nord Italia, ci verrà naturale associare questa temperatura al caldo, visto che nella norma non si arriva a quelle temperature se non in certi periodi dell’anno.
Allo stesso modo, anche sofferenza e felicità possono essere interpretati in maniera differente, a seconda di ciò che noi consideriamo “normale”. Se al centro tra questi due estremi mettiamo il termine “serenità” di cui vi ho già parlato in questo post in cui abbiamo visto il concetto di felicità secondo il buddismo, vedremo che il concetto di serenità può variare molto non solo in base a dove si nasce e alla classe sociale a cui si appartiene, ma anche, e soprattutto, ai desideri innati di ognuno.
Sofferenza come mancanza
Il buddismo interpreta la sofferenza non come un dolore fisico, ma come un dolore spirituale. In particolare, spesso la sofferenza viene legata al concetto di mancanza e assenza; come dice il monaco vietnamita Thich Nhat Hanh
Gran parte della nostra sofferenza dipende dalle nostre percezioni. Ogniqualvolta non otteniamo ciò che vogliamo, consideriamo ciò una sofferenza.
Le quattro verità dell’esistenza, Thich Nhat Hanh
Si tratta di una frase che racchiude in sé una grande verità, spesso trascurata nella quotidianità di ogni giorno, ma che possiamo vedere con chiarezza se osserviamo il comportamento di un bambino.
Se un bambino vuole qualcosa, sia essa un giocattolo oppure una persona, ad esempio voler essere preso in braccio dalla mamma o dal papà, e non la ottiene, comincia a piangere.
Piangere diventa espressione della sofferenza di non esser riuscito ad ottenere ciò che si desiderava. Si tratta di un sentimento ambiguo, che con l’avanzare dell’età, e a seconda delle situazioni, può mescolarsi ad altri aspetti come delusione, frustrazione, rabbia, impotenza.
Alcuni esempi di sofferenza
È uscito il nuovo smartphone sul mercato, ad un prezzo proibitivo per le proprie risorse economiche, eppure lo si vorrebbe perché ha molte funzioni che potrebbero esserci utili, e forse perché una parte di noi vorrebbe poter far parte di quella cerchia che può permetterselo. Il non poter effettuare l’acquisto può provocare frustrazione e delusione di sé, del proprio stile di vita che non è all’altezza di ciò che immaginiamo. Tutto ciò è sofferenza.
Si è innamorati di una persona che non ci ricambia: si vorrebbe che quella persona facesse parte della propria vita, ma ciò non accade. Questa situazione può essere vissuta come frustrante, e portare a sentirsi arrabbiati e impotenti. Tutto ciò è sofferenza.
Ci si sta impegnando a fondo per cercare di dimagrire, perché non ci riconosciamo nel numero che compare sulla bilancia ogni volta che ci saliamo su e perché abbiamo cominciato a non piacerci più allo specchio. Si è deciso di seguire una dieta rigida e ci si è anche iscritti in palestra pur di raggiungere le misure di quel corpo che riteniamo perfetto. Eppure, dopo poche settimane, rieccoci a mangiare le stesse cose di prima, mentre il borsone della palestra comincia a prendere polvere, dopo averlo usato giusto un paio di volte. Anche questa situazione frustrante è sofferenza.
Il buddismo consiglia di osservare la sofferenza
Si potrebbero fare molti altri esempi di situazioni frustranti accomunate dall’incapacità di raggiungere un traguardo che ci si è posti, o che ci si è visti porre dalla società.
La sofferenza si nasconde in molti aspetti della vita, a partire da quella personale, familiare, lavorativa o da studente. Riuscire a destreggiarsi tra tutte queste situazioni che portano alla sofferenza non è affatto semplice, ed è forse per questo motivo che Buddha ha concentrato i suoi studi su di essa.
Tutti hanno sperimentato un qualche aspetto della sofferenza nella propria vita, a partire dai bambini fino agli anziani, indipendentemente dallo status sociale e dal proprio genere di appartenenza.
Eppure, sebbene sia un qualcosa che tutti hanno sperimentato, pochi si sono fermati a cercare di comprendere appieno cos’è la sofferenza.
Il Buddha ci consiglia di non tentare di fuggire dalla nostra sofferenza, bensì di abbracciarla e osservarla a fondo.
Le quattro verità dell’esistenza, Thich Nhat Hanh
Buddha ci dà un consiglio molto più personale e privato: quando incontri la sofferenza, non fuggire, non odiarla, non contrastarla; bensì guardala e cerca di capire cosa l’ha provocata. Ma non ti fermare alla soluzione più semplice: continua a scavare, cerca di capire anche le altre cause, la causa della causa, finché non arriverai ad una risposta che ti aiuterà a capire la VERA causa della sofferenza.
E durante questa ricerca, cerca di essere oggettivo: non darti colpe che non hai, e non incolpare gli altri per ciò che è successo (o che non sei riuscito ad ottenere), e non piangerti addosso. Cerca di lasciare da parte i sentimenti per un momento, in modo da riuscire a capire davvero quali sono le cause che ti stanno facendo soffrire.
Mettere da parte i propri sentimenti
Perché è necessario mettere da parte i sentimenti durante l’osservazione delle cause della sofferenza? Perché questa ricerca potrebbe portare con sé molti pensieri tossici che possono andare a influenzare in maniera negativa la propria autostima.
Non si è riusciti a ottenere una promozione? È perché non si è stati abbastanza bravi.
Si sono abbandonati i buoni propositi di seguire una dieta salutare e fare esercizio fisico? È perché siamo troppo pigri.
Non si hanno i soldi per comprare quella determinata cosa che abbiamo visto e che vorremmo tanto avere? È perché abbiamo le mani bucate e spendiamo sempre in cianfrusaglie, oppure perché non siamo abbastanza bravi da poter chiedere un aumento di stipendio.
In molte occasioni, diamo la colpa a noi stessi per ciò che non siamo riusciti ad ottenere, affibbiandoci aggettivi negativi che ci portano a non credere in noi stessi e nelle nostre capacità.
Porsi altre domande per arrivare più a fondo
Invece è importante non cercare di colpevolizzarsi per ogni cosa, ma cercare di capire quali sono davvero le vere cause che ci portano alla sofferenza, facendoci delle domande alternative e che raggirino le nostre risposte “preimpostate”.
Non si è riusciti a ottenere una promozione? Forse perché qualcun altro è stato più bravo? Ricordiamo che se noi siamo stati bravi, ma qualcun altro ha fatto un lavoro migliore del nostro, ciò non comporta che il nostro lavoro allora faccia automaticamente schifo.
Si sono abbandonati i buoni propositi di seguire una dieta salutare e fare esercizio fisico? È davvero solo colpa della nostra pigrizia? O forse è perché abbiamo l’idea che dieta salutare=mangiare cose non buone oppure mangiare troppo poco per i nostri standard, o perché la dieta sembra “noiosa”?
Non si hanno i soldi per comprare quella determinata cosa che abbiamo visto e che vorremmo tanto avere? E se invece di concentrarci sul perché non possiamo permetterci di spendere quei soldi, provassimo a pensare perché desideriamo tanto quella cosa? È davvero così indispensabile nella nostra vita?
Il buddismo distingue dolore e sofferenza
Mi rendo condo che fare degli esempi generici come questi può portare a risposte molto vaghe, ma il processo di “indagine” dovrebbe andare più o meno in questa direzione.
È importante cercare di essere neutrali per evitare che il nostro cervello cerchi in qualche modo di “ingannarci” sulla situazione che stiamo vivendo, facendoci interpretare la realtà per come la vorremmo vedere e non per come è realmente.
L’estraniarsi da una situazione ci permette anche di capire la differenza tra dolore e sofferenza, una differenza sottile ma che nel buddismo assume un preziosissimo strumento per cercare di liberarsi dalla sofferenza.
C’è differenza tra sofferenza e dolore, perché il dolore può essere inevitabile, ma ciò non significa che dobbiamo soffrire. […] A volte il dolore è solo dolore e, quando riesci ad accettarlo, non soffri.
Le quattro verità dell’esistenza, Thich Nhat Hanh
Sebbene questa frase potrebbe confondere molti, se pensiamo al dolore come dolore fisico e alla sofferenza come a un’esperienza emotiva, potremmo fare qualche riflessione che ci confermerà questa affermazione.
Ad esempio, il ciclo mestruale. La maggior parte delle donne prova dolore fisico con la comparsa del ciclo. Ovvio che la prima parola che viene in mente in questa situazione è che si sta soffrendo, ma si tratta comunque di dolore fisico. Si tratta decisamente di un dolore differente da quello che si prova se viene a mancare qualcuno a noi caro.
Ci sono tante sfaccettature di dolore e sofferenza, e in alcuni casi, possono comparire entrambe. Ma, più spesso, siamo portati a dire che se c’è dolore, allora c’è sofferenza, e viceversa. Buddha invece ci dice di provare a scindere le due cose, in modo da capire quando una situazione è sofferenza e quando è invece dolore.
Esempi di sofferenza rivisitati
Se sono in cucina e mi faccio un taglietto con il coltello, sarò portata a pensare a quello come a dolore: sentirò dolore, è inevitabile, ma ciò non significa che debba anche soffrire emotivamente per quel taglietto.
E se invece capita un evento, come ad esempio un lutto, in cui dolore e sofferenza si mescolano, riuscire a distinguere i due sentimenti può aiutarci ad affrontare la situazione al meglio. È inevitabile soffrire per la scomparsa di una persona cara, ma arrivare al punto di volersi annullare e non voler fare altro che piangere quella persona, rifiutando di fare alcunché, è sicuramente un sentimento più vicino alla sofferenza che al dolore.
E con questo non significa che la sofferenza sia qualcosa di sbagliato: mettiamo da parte il duo giusto-sbagliato, poiché la differenza tra dolore e sofferenza può essere riassunta in questa affermazione:
La differenza tra dolore e sofferenza secondo il buddismo
Il dolore può anche essere inevitabile, ma il fatto di soffrire o meno dipende da te. Soffrire è una scelta, tu scegli se soffrire o meno. […] Questo non significa che la nostra sofferenza non sia reale, solo che possiamo attenuarla invece di accentuarla e possiamo persino trasformarla.
Le quattro verità dell’esistenza, Thich Nhat Hanh
Tornando all’esempio del lutto, una persona può scegliere (più o meno involontariamente) se e quanto soffrire per la scomparsa di una persona. Ad alcune persone non è permesso crogiolarsi nel dolore e nei rimpianti, mentre ci sono persone che scelgono di farlo. (E, ripeto, cerchiamo di non pensare immediatamente di categorizzare i due tipi di persone secondo un comportamento giusto e uno sbagliato, non è questo il punto).
Se sentiamo un’emozione, quella è reale. Ma noi abbiamo il potere di accentuare o attenuare quel sentimento. Solo che, spesso, non ne abbiamo la consapevolezza.
Non è una gara a chi soffre di più
Come abbiamo visto, ci sono diversi tipi di sofferenza, che possono nascere in diversi contesti e in base a desideri (mancati) differenti. Nei vari esempi che abbiamo visto oggi, ognuno di noi avrà fatto una “classifica” in base a ciò che può essere considerato più grave fino alle cose più “futili”, ma sarebbe sbagliato classificare la sofferenza.
La sofferenza è reale per chi la prova, indipendentemente dal fatto che essa sia stata provocata da un motivo più o meno futile.
Dire ad un bambino che piange disperato perché vuole un giocattolo che i suoi genitori si sono rifiutati di comprargli che la sua sofferenza è meno valida perché ci sono bambini nati in paesi in guerra che non hanno neanche da mangiare, è sbagliato.
La vita non è una gara a chi soffre di più: se qualcuno sta peggio di noi, ciò non invalida la nostra sofferenza presente.
Buddismo e sofferenza: compassione o egoismo?
Facciamo l’esempio opposto: se io sono felice, e mi si dice che c’è qualcuno che ha più “diritto” di noi di essere felice, la felicità di questa seconda persona non invalida la mia. Non è che se la sua felicità è maggiore allora io non sono più felice. Semplicemente, nel mondo ci sarà un po’ più di felicità.
Allo stesso modo, se io sto soffrendo, non significa che se qualcuno soffre più di me allora io non sto più soffrendo. Semplicemente, nel mondo ci sarà un po’ più di sofferenza.
Il concetto di “competizione” quando si parla di sofferenza è legato indissolubilmente al concetto di “io”. Se io sto soffrendo più di qualcun altro, allora la mia sofferenza è giustificata e ciò significa che gli altri mi devono comfortare e cercare di consolarmi. Se io soffro, non voglio stare ad ascoltare della soffrenza altrui, altrimenti dovrò essere io a dover mettere da parte i miei sentimenti per cercare di consolare quell’altra persona.
Qualcuno potrebbe dire che si tratta di ragionamenti egoisti, ma sfido chiunque a dire di non aver mai fatto un pensiero del genere, nel proprio profondo, magari anche inconsciamente.
Sofferenza come occasione per migliorarsi
Anche in questo caso Buddha ci dà un consiglio particolare:
Possiamo imparare parecchio dalla sofferenza. Osservare a fondo la sua natura ci aiuterà a coltivare comprensione e compassione.
Le quattro verità dell’esistenza, Thich Nhat Hanh
Se invece di metterci in competizione con la sofferenza altrui, possiamo decidere di provare a metterci nei panni dell’altra persona; ecco che in questo modo possiamo sviluppare compassione, nel suo significato etimologico latino cum patior, ovvero “soffro insieme“.
La compassione ci può aiutare a migliorare la nostra comprensione dell’altro e a sviluppare una visione un po’ meno egoistica del mondo, mettendo cioè da parte i nostri valori e il nostro punto di vista per cercare di immedesimarsi con i sentimenti dell’altra persona.
E, se come abbiamo affermato poco fa, è sbagliato lasciare che altri sminuiscano la nostra sofferenza, forse possiamo usare la compassione che proviamo per essere noi stessi a valutare nuovamente la nostra sofferenza e decidere quanto accentuare il nostro dolore in una determinata situazione.
Perché, se scegliamo di accentuare la nostra sofferenza, e tendiamo ad avere un atteggiamento “competitivo” nei confronti della sofferenza altrui, finiremmo per trovarci su quello che Buddha definisce il sentiero della sofferenza.
Siddharta e la scoperta della sofferenza
L’oggetto primario delle osservazioni di Buddha è stata la sofferenza. Secondo la tradizione, Siddharta sarebbe stato cresciuto negli agi del palazzo, e non avrebbe mai conosciuto il dolore prima di una sua visita in città, in cui incontrò la sofferenza in diverse forme – povertà, malattia, vecchiaia, morte. In seguito, egli decise di lasciare il palazzo e farsi monaco.
Eppure la storia che ho sentito qui in Thailandia è molto differente – lo scorso anno in televisione ho avuto occasione di vedere una serie televisiva indiana sulla vita del Buddha Siddharta, fin da prima della sua nascita, fino alla sua dipartita, e mostrava molti più eventi e un Siddharta molto più consapevole dell’esistenza del dolore sin dall’infanzia.
Per cui mi trovo molto d’accordo con il monaco Thich Nhat Hanh quando dice che “questa versione della storia è troppo ingenua”.
Siddharta era un giovane brillante e intelligente. […] Suo padre era un re, ma un re non ha tanto potere come potremmo pensare. […] Anche se sei il sovrano non puoi eliminare tutte le sofferenze per il tuo popolo. Ci sono tantissime persone povere o affamate, molte situazioni sono complicate. Siddharta poteva vedere che anche se sei il re non puoi risolvere tutte le difficoltà e donare la felicità a tutti. Così prese la decisione di trovare un vero sentiero che potesse donarla a tutti. Ecco perché cercò una via.
Le quattro verità dell’esistenza, Thich Nhat Hanh
Ciò che il Buddha ci racconta di sofferenza e felicità non sono verità assolute che dobbiamo accettare “per fede”. Sono verità a cui ognuno può giungere, se fa un percorso di meditazione (cioè di osservazione) della realtà e delle vere cause di ciò che succede nel mondo.
Se vogliamo raggiungere la felicità, dobbiamo inevitabilmente studiare anche il suo opposto, la sofferenza. E per conoscere la sofferenza, dobbiamo fermarci ad analizzare in maniera più profonda le cause che hanno portato alla nascita della sofferenza in una determinata occasione.
Il buddismo interpreta la sofferenza
come un’interpretazione errata del mondo
Buddha riconosce uno schema nella formazione della sofferenza, causata da molti fattori “erronei”.
Il sentiero della sofferenza è l’ignobile sentiero dell’erronea visione, erroneo pensiero, erronea parola, erronee azioni, erroneo sostentamento, erronea diligenza, erronea consapevolezza, ed erronea concentrazione. Se capiamo come e perché stiamo camminando sul sentiero della sofferenza possiamo vedere il suo opposto. […] La sofferenza del mondo e la nostra sofferenza sono state provocate da visioni errate e pensieri errati.
Le quattro verità dell’esistenza, Thich Nhat Hanh
Ancora una volta, il buddismo riconosce la sofferenza come qualcosa di reale, che però nasce a causa di uno o più fattori “erronei”. Un pensiero o una parola errata possono provocare molta sofferenza; sarebbe sufficiente guardare a quante storie, scritte o raccontate tramite video o immagini, con alla base un malinteso hanno causato sofferenza ai protagonisti di libri, film e fumetti.
Quella sofferenza ci sarebbe stata se la parola errata o il pensiero errato non fosse stata pronunciata-fatto?
E quante volte nella realtà ci è capitato di soffrire a causa di un malinteso? Quella sofferenza era reale, ma si sarebbe potuta evitare se ci si fosse comportato in maniera più giusta e corretta?
Studiare la sofferenza secondo il buddismo, per raggiungere la felicità nel tempo presente
Sono domande senza dubbio molto interessanti, che possono portare a ottimi spunti di riflessione personale non tanto su ciò che è successo, e che non ci sarà possibile cambiare, ma soprattutto per il futuro, o meglio, per capire come vogliamo vivere il presente.
Se abbiamo riconosciuto un nostro modo di comportarci, pensare, agire erroneo che ha portato sofferenza, forse quando ci troveremo in una situazione simile potremmo agire o pensare in maniera più corretta, in modo da evitare di causare sofferenze future.
Non dimentichiamo che in fondo Buddha non ci dice di rimanere ad osservare il passato, ma di prenderlo come spunto per poi vivere il nostro presente al meglio. La nostra osservazione della sofferenza non è fine a se stessa, ma è uno strumento per permetterci di riconoscere il sentiero della felicità, per potervi camminare il più a lungo possibile ed avere così un’esistenza più serena.
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